8 febbraio
Nasce nel Sudan nel 1869. All’età ci circa nove anni, venne rapita e venduta a mercanti di schiavi. Bakhita fu il nome datole dai rapitori e vuol dire “fortunata”. Iniziarono per lei anni di privazioni, frustate e passaggi da padrone in padrone. Venne sottoposta anche ad un rito tribale cruento: 114 tagli inferti col rasoio lungo il corpo e poi trattati col sale per evidenziare le ferite. Lei stessa annoterà in un suo manoscritto, custodito nell’archivio storico della Curia generalizia delle suore Canossiane di Roma: “Mi pareva di morire ad ogni momento… senza una pezzuola con cui asciugare l’acqua che continuamente usciva dalle piaghe semiaperte per il sale”.
Finalmente, giunse alla sua quinta compra – vendita. Con Callisto Legnami, un agente consolare italiano, terminarono per lei dieci anni di torture e umiliazioni. Bakhita indossò finalmente un vestito. A causa della rivoluzione mahdista, l’agente lascerà Khartoum per tornare in Italia. Portò con sé Bakhita che la regalerà ad una coppia di amici di Mirano Veneto e per tre anni diventerà la bambinaia della loro figlia Alice.
I coniugi Michieli le proibirono di frequentare la chiesa. Di questo non era d’accordo l’amministratore della casa, Illuminato Cecchini, che, al contrario dei Michieli, fu un fervente cattolico intenzionato a convertire la giovane ragazza e ne approfittava di ogni momento per poterle parlare di Gesù, di Dio e della Chiesa.

La mamma della bambina, Maria Turina Michieli, dovendo raggiungere l’Africa, decise di mandare la figlia e la bambinaia in un collegio diretto dalle suore Canossiane di Venezia. Dopo circa nove mesi, la donna rivendicò i suoi diritti sulla bambinaia ma lei, che nel frattempo aveva studiato catechismo e si stava preparando a ricevere il battesimo, le disse che non l’avrebbe seguita: in Africa non avrebbe potuto manifestare la sua fede nel Signore. Sul diritto di proprietà della signora sulla schiava intervennero sia il patriarca di Venezia Domenico Agostini che il procuratore del re il quale la dichiarò libera. La legge italiana, infatti, vietava ogni forma di schiavitù.
Per Bankhita inizierà una nuova vita: il 9 gennaio del 1890 riceverà il Battesimo, la Cresima e la Comunione e le verrà dato il nome di Giuseppina, Margherita, Fortunata. Nel 1893 entrerà nel noviziato delle Canossiane. Il cardinal Giuseppe Sarto, il futuro papa Pio X, le dirà: “Pronunciate i santi voti senza timori. Gesù vi vuole, Gesù vi ama. Voi amatelo e servitelo sempre così”. Nel 1896 pronuncerà i voti. Suor Giuseppina si occupava anche delle missioni, conquistava la gente con la sua bontà, la sua gioia e la sua fede. I bambini la chiamavano la “suora di cioccolato”. Lasciava a tutti questo semplice messaggio: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio».
La sua vita, la sua storia erano l’argomento con cui iniziare i suoi incontri nei quali parlava della infinita bontà e amore di Dio che l’avevano resa libera e cristiana. Disse: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa…”.
Visse le due guerre mondiali. Nella prima prestò soccorso a soldati feriti ricoverati negli ospedali e alla gente provata nell’animo. Questa esperienza la rafforzò nello spirito. Diversamente, dall’esperienza della seconda guerra mondiale ne uscì provata nel fisico. Era, ormai, grande, stava per festeggiare il cinquantesimo di vita monastica e gli acciacchi erano molti: un’artrite deformante la obbligava ad aggrapparsi al bastone per muoversi e ad usare la sedia a rotelle e una bronchite asmatica con la tosse le toglieva quasi il respiro.
A causa di una polmonite morirà l’8 febbraio del 1947 a Schio dove rimase per ben 45 anni. Schio si vestì a lutto. Nella diocesi di Milano la sua memoria ricorre il 9 febbraio; la Chiesa, invece, la ricorda l’8 febbraio.