Filippo Anastasi* come ha conosciuto per la prima volta Giovanni Paolo II? C’è un primo incontro nella mia vita: l’ho conosciuto sull’aereo che ci portava in Camerun e che poi sarebbe proseguito per il Kenia ed il Sud Africa nel 1995. Il Papa entrò, salutò tutti i giornalisti e quando li fui presentato Navarro Valls (portavoce del Pontefice) disse: «Padre Santo questa è la prima volta che Anastasi viene con noi». E lui mi diede un grande e caloroso cenno di benvenuto. Poi s’informo sulla mia famiglia e poi accettò una mia domanda professionale. Ma questo è l’incontro fisico. Nel 1978 c’è l’incontro che segna la mia vita con Giovanni Paolo II o meglio con Karol Wojtyla. A quell’epoca io lavoravo a “Il Messaggero” e il direttore dell’epoca, dopo la morte di Paolo VI, mi chiese di dare un mano al vaticanista Marco Politi per preparare tutte le pagine speciali, le pagine dei papabili cioè di coloro che erano candidati a diventare Papa. Pagine che dovevano essere prefabbricate con molto anticipo perché all’improvviso si sarebbe saputo qual era il Papa e quindi bisognava uscire subito con un’edizione straordinaria del giornale. Feci questo lavoro per tutto il mese di agosto e si concretizzò il miracolo che la pagina di Papa Luciani, Giovanni Paolo I, ce l’avessi pronta e che quindi il lavoro andasse a buon fine. Trascorsero 33 giorni e Papa Luciani morì e io ricominciai a fare questo lavoro per tentare di indovinare chi fosse il papa successivo. Mentre per Papa Luciani ero stato pronto, per Papa Wojtyla non lo fui affatto. Quando, dopo la fumata bianca, il protodiacono Pericle Felici si affacciò alla loggia di San Pietro e disse che il papa era Papa Wojtyla, il polacco, mi prese quasi un colpo perché quella pagina non l’avevo preparata. Cominciò una corsa affannosa alle notizie, non è che si sapesse tanto di Karol Wojtyla. Comunque il giorno dopo riempii un’interna pagina de “Il Messaggero” e feci questo titolo: “Il Papa venuto dall’Est che cambierà il mondo”. Bè penso di essere stato profetico. Ne ho parlato poi a lungo con i collaboratori del Papa che mi dissero che avevo azzeccato al 100% questa profezia. Questo fu l’incontro mediatico con Giovanni Paolo II che ha comunque cambiato la mia vita.
Perché è stato un grande comunicatore? Forse perché veniva dalla Polonia, forse perché veniva da un Paese in cui era impossibile parlare di libertà, forse perché voleva comunicare la sua ansia di Vangelo, di libertà e di fede a tutto il mondo. Forse perché è stato un Papa pellegrino. Pellegrino perché lui diceva sempre: «Non tutti possono venire a Roma e allora – e questo è il segno dei suoi 104 viaggi internazionali – è lui che ha girato il mondo, è lui che è andato incontro ad almeno un miliardo di persone nei suoi vari viaggi».
A proposito di viaggi lei ne ha seguiti molti accanto a Giovanni Paolo II. Da questa sua esperienza è nato un libro. Come l’ha intitolato?“In viaggio con un Santo” (ed. Messaggero di Padova) e il titolo fa capire di che si parla. È il racconto anche molto privato, pieno di aneddoti di almeno 50 viaggi fatti con Giovanni Paolo II.
Il Papa ha fatto tantissimi viaggi, ma non tutti i viaggi sono stati, come spesso si racconta, dei successi strepitosi.
Ecco io racconto, dividendoli per tipologie, questo tipo diverso di viaggi. Ci sono stati viaggi in cui nessuno era con lui, dove c’erano pochissimi cattolici per non dire solo noi del seguito, giornalisti del volo papale come a Nuova Delhi e in Kazakistan. Per non parlare di viaggi che sembrano sconfitte: parlare di viaggi sconfitta nella vita di Giovanni Paolo II sembra strano e invece il viaggio nel Sinai al Monastero di Santa Caterina lo racconto e lo considero una sconfitta perché lì Papa Wojtyla fu accolto dai monaci molto frettolosamente. Gli fu fatto visitare il roveto ardente, eravamo soltanto dieci giornalisti perché questo viaggio faceva parte di un viaggio al Cairo in Egitto e poi con un aereo militare poche persone, compreso il Papa, erano andate al Sinai al Monastero di Santa Caterina. Dunque frettolosamente gli fu fatto visitare il Monastero poi era prevista, a mezzogiorno, una preghiera congiunta con i monaci ortodossi, greco scismatici del monastero. Ebbene questo non avvenne perché quando il Papa uscì dal portone del monastero di Santa Caterina, il portone si chiuse i monaci rimasero dentro e lo lasciarono sul muro esterno da solo. Fu una sconfitta perché la preghiera congiunta che doveva essere propedeutica per un incontro con i greco scismatici ortodossi in Grecia che sarebbe avvenuto l’anno dopo non ci fu.
Però anche questa sconfitta segnò una tappa di avvicinamento all’unità dei cristiani perché l’anno dopo il Papa riuscì ad andare ad Atene a parlare con il Patriarca Atenagora ad incontrarlo e quindi il viaggio della sconfitta si dimostrò un viaggio di successo.
Poi ci sono i viaggi dello stupore, i viaggi come quelli in Polonia dove tutto si paralizzava. Voi immaginate il Papa polacco che va in Polonia, che cosa può significare per una nazione di decine di milioni di persone. Significa che anche a distanza di cinque, dieci chilometri, tutti i polacchi cercano disperatamente, paralizzati dall’attesa, di vedere passare da lontanissimo il puntino della macchina, per non dire del mantello bianco del Papa. Allacciati a corde, in piedi su ponteggi, precari per ore, ore e ore. Insomma una nazione che si paralizza per sentire il respiro del proprio Papa, perché il Papa è uno di loro, perché lo sentono, e perché vogliono assolutamente stare vicino al loro vescovo che è diventato Papa. E poi i viaggi dell’entusiasmo come soprattutto in Centro America, in Messico, dove anche lì milioni e milioni di persone arrivavano con ogni mezzo per vedere anche da lontanissimo il Papa; come nelle grandi savane africane, come ad Abuja in Nigeria, o come a Nairobi in Kenia dove due milioni di persone si radunavano per sentire la voce del Papa, soltanto sentire perché vederlo ad un chilometro e mezzo di distanza era davvero un’impresa. Ebbene io questi viaggi li racconto, conditi da molti aneddoti personali, da molti racconti ed anche da qualche breve dialogo con il Papa, che sono quelle cose che ti segnano per tutta la vita.
Qual è stato uno degli ultimi viaggi di Giovanni Paolo II che ha seguito?
L’ultimo a Lourdes dove lui volle andare malato tra i malati. Rifiutò la residenza del vescovo Perrier, erano mesi che il vescovo di Lourdes la preparava per accogliere il Papa. Ma lui disse: «Voglio andare tra i malati», e si fece ricoverare, anche perché era molto malato, in uno dei reparti dell’Hospitalité.
Che cosa raccomandava a voi giornalisti?
Di essere onesti, sempre. Non ce l’ha mai raccomandato esplicitamente ma ci ha sempre fatto capire che il nostro grande privilegio doveva essere quello di essere leali con chi ci leggeva o ci ascoltava e quindi onesti.
Giovani Paolo II è sempre riuscito a parlare a tutti…
E colpiva tutti. Io posso raccontare come ha colpito me che non ero affatto credente e lo sono diventato grazie ad un paio di pietre di inciampo nella mia vita e una di queste è Papa Wojtyla.
Tornando da un viaggio in Kazakistan, mentre dormicchiavo fui chiamato da Navarro che mi disse: «Vieni Filippo che il Santo Padre vuole parlarti». Ero preoccupatissimo. Quando fui lì, seduto accanto a lui, mi chiese: «Questa volta che c’erano soltanto un pugno di cattolici di che cosa hai parlato?». E io gli raccontai le difficoltà di essere cattolici in un territorio di frontiera, gli sintetizzai le ore e ore del mio programma.
E lui mi disse: «Ma quante ore di trasmissione hai fatto?», «Santo Padre ho condotto diverse ore di trasmissione». E lui mi rispose: «Io non ti ho mai potuto ascoltare – (logicamente perché quando lui faceva qualcosa o parlava io ero in diretta) – però mi hanno detto tante belle cose di te. Grazie!». È un brivido sentirsi dire grazie dal Papa. Avrà conosciuto milioni di persone. E queste sono quelle cose che segnano l’anima, la vita, che si raccontano ai propri cari, figli e nipoti, perché sono emozioni e sensazioni irripetibili.
A suo parere quale testamento spirituale, quale eredità, ci ha lasciato Papa Wojtyla?
Ci ha lasciato un testamento enorme: di voler bene agli altri guardando dentro se stessi. Se uno vuole bene a se stesso vuol bene anche agli altri. Questo è l’insegnamento che ci ha saputo dare, non tanto con le parole, quanto con i gesti perché Wojtyla è stato il maestro del gesto. Anche dopo morto ci ha lasciato un insegnamento: ricordiamoci quel funerale, quando le pagine del Vangelo si sfogliavano da sole. Io penso che abbia voluto darci un segno, che anche lì abbia soffiato come un vento birichino dall’alto per sfogliare il libro del Vangelo e dire io sono qui con voi e sarò sempre con voi.
*Vice Direttore, responsabile dell’informazione religiosa. Autore e conduttore di Oggi2000 su Radio1 Rai