30 aprile
Marco Passionei, nasce il 13 settembre del 1560 a Urbino, da Domenico Passionei e Maddalena Cibo di nobile famiglia. Settimo di undici figli, rimasto orfano a sette anni, venne condotto dai suoi tutori a Cagli nel palazzo di famiglia per ricevere i primi rudimenti delle lettere insieme ai fratelli. A diciassette anni studiò all’Università di Perugia prima e poi di Padova. Lo studio non gli impedì le sue pratiche religiose: ogni mattina si recava a Messa e faceva spesso la comunione. Poté così fronteggiare le insidie del demonio, del mondo e della carne.
Laureatosi, fu avviato alla vita di corte romana del cardinal Pier Giravamo Albani e, disgustato, maturò il pensiero di farsi cappuccino. Venne ricevuto, dopo molti rifiuti per la sua salute cagionevole, dal frate Provinciale delle Marche, venne ammesso al noviziato di santa Cristina in Fano e poi rimandato in famiglia per problemi di stomaco. Le sue insistenze lo portarono alla professione religiosa avvenuta nel 1585 col nome di fra Benedetto. Dopo l’ordinazione sacerdotale gli venne affidato il ministero della predicazione. In quel tempo l’eresia luterana dilagava e l’imperatore d’Austria, Rodolfo II, e l’arcivescovo di Parga, mons. Berka, venuti a conoscenza del gran bene che faceva i Cappuccini nelle altre nazioni, chiesero al papa Clemente VIII di ordinare l’invio di alcuni frati nelle loro terre.
Nel 1600 il ministro generale Girolamo da Castelferretti lo unì al drappello missionario, sotto la guida di san Lorenzo da Brindisi, per dilatare l’Ordine in Boemia e sostenere la fede cattolica. Benché non avesse domandato di andare, si trovò subito pronto a partire. La sua salute malferma, però, lo costrinse a tornare indietro dopo pochi anni dedicandosi alla predicazione e ai ragazzi. Odiava il peccato e fu modello di vita cappuccina. Raramente usciva di cella e più raramente dal convento, solamente per questuare e predicare. Diceva: “È meglio portare il peso del pane che quello dei peccati”. Ma la sua devozione era rigidamente programmata, cadenzata dalle ore notturne e diurne di orazione che allungava oltre le pratiche di pietà comunitarie. Come riportano tutti i suoi biografi, la sua giornata cominciava con una o due ore di preghiera in chiesa prima della recita in comune del mattutino. Finito l’ufficio, ritornava mezz’ora in cella per un breve riposo. Poi era di nuovo in chiesa, dove, sempre in ginocchio e con le mani giunte, recitava la corona della Madonna. Dopo il rosario faceva la disciplina e quindi si immergeva nell’orazione mentale fino all’alba. Non si stancava mai di pregare.

Ogni giorno recitava l’ufficio della beata Vergine, i sette salmi penitenziali, l’ufficio dello Spirito Santo e della santa Croce, molti rosari e pater nostri; consumava molto tempo in letture spirituali, nel fare la via Crucis, nel visitare il tabernacolo e l’altare della Madonna. Lui così fragile, emaciato, debole, pareva che riprendesse vigore quando stava in orazione. La sua era una predicazione del cuore, quasi un’esortazione umile agli umili, ma tutta parola di Dio per scuotere e convertire. Predicò l’ultima quaresima a Sassocorvaro. Per strada fu prostrato dal flusso di sangue che soffriva da alcuni anni. Cominciò la predicazione, ma la dovette interrompere. Fu trasportato da dodici uomini, sopra una sedia, prima nel convento di Urbino e poi in quello di Fossombrone dove morì il 30 aprile del 1625 a 65 anni di età e 41 di vita religiosa, dopo essere stato confortato dall’apparizione di S. Filippo Neri, di cui era sempre stato devoto. Dal suo corpo si sprigionò un soave profumo di gigli e viole.
Tanti accorsero per porgergli l’ultimo saluto. Venne beatificato da papa Pio IX il 10 febbraio del 1867. I suoi resti mortali sono conservati nel convento di Monte Sacro. Il beato scrisse alcuni opuscoli ascetici, inni, sonetti e lettere varie che si conservano nella biblioteca Passionei di Fossombrone.