Don Andrea Fontana, presbitero della chiesa di Torino, ha scritto per le edizioni Effatà, un “diario di viaggio” del suo cammino umano, vocazionale, sacerdotale e missionario. “Prete nonostante tutto” (Effatà editrice) è il titolo del suo libro.

Quale motivazione l’ha spinta a mettere nero su bianco e a raccontarsi?
Giunto al termine dei miei mandati pastorali ufficiali, e praticamente in pensione, salvo collaborare con una parrocchia vicino a casa mia ove abito, è parso utile a me e ai lettori cambiare genere letterario e raccontare. Raccontare di me, ma in me di molti altri credenti in Cristo, per cercare di capire come il Signore guidi la nostra vita, allo stesso modo come ha fatto con i personaggi del Vangelo e della Bibbia. Ho voluto sperimentare il genere letterario narrativo, che coinvolge di più il lettore.
Lei scrive che la Provvidenza aggiusta anche i cocci che vanno in frantumi. In quali occasioni l’ha sperimentato?
Meditando spesso sulla storia della salvezza, compiuta in Cristo Gesù, attraverso la Sacra Scrittura, sono sempre rimasto colpito dalla “poca fede” del popolo di Israele e, spesso, degli stessi apostoli (ad es. Mc 4,40). Ma ciò che mi commuove di più nella Parola del Signore è l’amore e la misericordia con cui Egli ha saputo condurre a termine il suo disegno nella morte e risurrezione di Gesù, nonostante la poca fede degli apostoli, il rifiuto delle autorità religiose, l’indifferenza delle folle. Le vie del Signore passano spesso attraversano le nostre esperienze, anche le nostre sofferenze o le nostre fragilità, per condurci dove egli vuole che noi andiamo. Nel libro appare evidente, in molti episodi della mia vita, come il Signore mi ha fatto sperimentare la sua Provvidenza, a volte sconvolgendo i miei piani e le mie attese, ma solo per darmi qualcosa di meglio (cf A.Manzoni: “Dio non toglie mai una gioia ai suoi figli, se non per darne loro una maggiore”).
“Devo ringraziarla per le sue omelie, perché mi incoraggiano tanto”. Le disse una signora di 84 anni al termine della celebrazione. Essere prete che cosa ha significato per lei, cosa significa per un sacerdote?
Un sacerdote deve oggi essere un’incarnazione vivente dell’amore che Dio manifesta all’umanità. Nella mia esperienza, negli anni giovanili hanno prevalso le rigidità e anche la contestazione, purtroppo. Erano altri tempi. Ormai da molti anni mi son reso conto che Dio voleva da me che predicassi il Vangelo, cioè la “bella notizia” di Gesù, il quale “passò beneficando e risanando tutti, perché Dio era con Lui” (At 10,38). Dunque, parole di gioia, parole di speranza. Ma anche gesti di accoglienza verso tutti, a volte anche forzando il pessimismo e i giudizi troppo negativi, per mettere in luce tutto il bene e l’amore che c’è oggi nel mondo. Il male fa molto rumore, ma “il bene e l’amore vincono qualsiasi male” (Rm 12,21).
Ha scritto che i figli unici non dovrebbero diventare preti diocesani ma entrare a far parte di una comunità. Si vive in solitudine?
Quello che ho scritto non è un trattato di dogmatica né una regola generale, ma è la mia esperienza concreta. Dunque, sì, è vero un prete diocesano è molto più solo che non un prete appartenente a una congregazione religiosa. Nella mia vita ci sono stati due vescovi su cinque che hanno veramente fatto un lavoro prezioso con noi preti, conoscendoci e sostenendoci nelle prove della vita e nelle asperità della missione apostolica. Non perché gli altri avessero cattiva volontà. Semplicemente, forse, perché si sono fidati troppo dei propri collaboratori che avrebbero dovuto tenere i contatti con tutti i preti diocesani, essendo il vescovo di una diocesi grande come la nostra, impegnato in altri problemi che solo lui poteva affrontare. Ormai, io da più di due anni vivo da solo in un alloggio in affitto: non che prima abitando in una parrocchia fosse molto diverso. Ma a tutt’oggi c’è solo un prete, che conosco da molti anni e che già nel passato mi aveva tratto in salvo, il quale si interessa di come sto e di come vivo. Dunque, non avendo altri appoggi, se non una colf a pagamento, mi riesce difficile pensare che un figlio unico – quando avrà bisogno di qualcuno che gli stia vicino – possa contare su tanto affetto che riempia la sua solitudine. D’altra parte sono convinto che la solitudine sia un condizione imprescindibile in ogni esistenza di qualsiasi persona sensibile.
“Fu sempre l’amore di Cristo a tracciare l’obiettivo della mia missione”. L’amore del Signore l’ha spinta a diventare sacerdote?
Sì, certo. Fin da quando negli studi teologici ha scoperto, sia nei libri sia nella preghiera, l’amore del Signore, ho continuato a cercarlo nelle pieghe quotidiane della mia esistenza. Compiendo la missione pastorale assegnatami come presbitero ho sempre avuto lo stimolo del suo amore per me. L’ho toccato con mano, l’ho sentito attraverso i legami fraterni che ho stabilito con molti amici laici, l’ho percepito nelle parole che ancora oggi, spesso a distanza di anni, qualcuno mi scrive su Facebook circa la scoperta di Cristo che ha potuto compiere nella sua vita grazie ad un corso di formazione, grazie ad un libro letto, grazie alle mie omelie. Come ricorda l’apostolo Paolo, non per merito mio, ma per la grazia del Signore (Rm 1,5 “abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli”; 1Cor 15,10: “per grazia di Dio sono quello che sono, la sua grazia in me non è stata vana…non io però, ma la grazia di Dio che è con me”). Non io, dunque, perché il Signore ha operato meraviglie anche attraverso le mie fragilità. L’amore è stato sempre il filo conduttore della mia missione, lo stimolo a superare ogni ostacolo. Anche se spesso ho avuto bisogno, come tutti gli esseri umani, di piccole soddisfazioni immediate.
15 anni di missione in Africa, don Andrea, perché “un prete che non senta il bisogno di fare il missionario, non è un prete autentico, chiamato ad evangelizzare”?
E’ così! Che poi uno abbia la possibilità di trasferirsi in Africa a fare il missionario è un altro discorso… Come è stato per me. E torniamo al disegno provvidenziale di Dio, il Padre. Nonostante il mio desiderio ho potuto solo seguire a distanza la missione. Ho fatto molti viaggi in molti paesi africani. Ma non ho potuto fermarmi laggiù, perché ero figlio unico e mio papà era rimasto solo. Anziano. Ammalato. Non potevo abbandonarlo a se stesso qui. Ma la missione è sempre stata nel mio cuore. L’unica rivista che ancora oggi leggo dalla prima all’ultima riga è quella dei Missionari della Consolata, che ho visto in Africa concretamente al lavoro. La mia prima esperienza limitata in Africa fu proprio in una missione a Karatina con loro. Tuttavia seguendo un Organismo non governativo di cooperazione e sviluppo (la LVIA di Cuneo) ho collaborato alla formazione di molti laici e sono andato a stare con loro per alcuni giorni, quando era necessario.

Il mio lavoro “missionario” è durato 15 anni. Poi la salute e gli impegni pastorali in diocesi mi ha portato a interrompere questa bella esperienza. La ritrovai in molti stranieri che in questi ultimi anni si sono rivolti a me e ai miei collaboratori nel “Servizio diocesano per il catecumenato”. Ho cercato di mettere in pratica la parola di Paolo: “Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo”. Spesso molti preti sono troppo occupati a celebrare Sacramenti e si dimenticano di annunciare Gesù e formare suoi discepoli. Anche i nostri laici cristiani non sono abituati a parlare della loro fede. Proprio in Senegal avevo scoperto che gli islamici, che lavoravano con i nostri volontari, erano loro a parlare di Dio e della fede con noi e non viceversa.
Prete felice nonostante tutto?
Sì, confermo. Felice non vuol dire che uno fa salti di gioia ogni giorno. Felice come può esserlo qualsiasi essere umano. Questo mio libro non è solo per descrivere la vita di un prete, ma attraverso di essa richiama la vita di chiunque vive in questo mondo. Ci sono in tutte le vite momenti di gioia e momenti tristi, momenti di serenità e momenti di dubbio, momenti di entusiasmo e momenti di depressione. Lo affermava già il libro del Qoelet: “C’è un momento per ogni cosa: un momento per ridere e un momento per piangere, un momento per vivere e un momento per morire, ecc…” Felice perché ritengo che la mia vita e la mia missione abbia contribuito a rendere la vita di qualcuno più bella. Come afferma papa Francesco: “Se riesco ad aiutare una persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita” (Evangelii Gaudium, n.274).