“Preghi Santo Padre con tutti noi perchè i nostri errori diventino profondo e sincero pentimento” e perchè “la società comprenda che siamo peccatori, come tutti, che anche noi siamo capaci di redimerci da ciò che abbiamo commesso e di provare dei sentimenti come altro essere umano”. Queste le parole di saluto e di accoglienza a Papa Francesco da parte di due detenuti, un uomo e una donna, nel carcere di San Vittore a Milano.
In esse si legge l’esigenza che la dignità di ognuno venga comunque rispettata. Ciò si evidenzia ancor più nell’asserzione del Papa: “Non giudicare; non siamo a conoscenza della vera storia di chi è stato privato della libertà” perchè deve scontare una pena detentiva.
Si riapre un atavico problema sul carcere come luogo di pena ma che in Italia dopo la riforma Gozzini del 1986 sarebbe dovuto diventare anche luogo di riabilitazione individuale e sociale.
Ci chiediamo: cosa è stato realmente fatto per far sì che pena e riabilitazione si toccassero e si sovrapponessero? Tutti siamo a conoscenza che la CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) ha richiamato e condannato l’Italia per l’inefficienza delle nostre strutture carcerarie e specialmente per il loro sovraffollamento. Ma le problematiche sono di certo ancora più profonde. Vi sono storie di povertà psicosociale, storie fatte di famiglie disagiate e in situazioni di gravi difficoltà economiche, ma anche di disagio sociale con problematiche minorili, che trovano terreno fertile d’impianto proprio in tali stati e che sono successivamente alla base di scelte di vita antisociale.
La legge Gozzini in realtà dava attuazione all’art. 27 della Costituzione Italiana che vieta una pena detentiva in violazione dei diritti umani. Essa introduceva una serie di possibilità volte a ridurre le restrizioni personali a cui è sottoposto il carcerato (permessi premio, affidamento al servizio sociale, semilibertà, libertà condizionale ecc.) lavori intra ed extra moenia.
Lo stesso carcere doveva essere e sentito, oltre che come luogo per l’espiazione della pena, anche come luogo di riabilitazione da cui dovevano gradatamente partire esperienze risocializzanti che guardassero al territorio e coinvolgessero il territorio.
“Non dobbiamo temere le sfide” esorta Papa Francesco, anche se esse a volte appaiono difficili.
Infondo, se per l’uscita dal carcere nessuno ha preparato o predisposto qualcosa per quel soggetto, se nessuno ha steso per lui un piano di rientro, la socetà resterà – a volte anche a giusta ragione – sempre più chiusa, impaurita e sospettosa; se nessuno si preoccupa di trasmettere un messaggio rassicurante o di avviare iniziative ed interventi mirati, allora assisteremo al perpetuarsi delle recidive, ma anche di processi di emarginazione ed esclusione.
Certamente molte problematiche, quelle più profonde, sono a monte del carcere e provengono dalle famiglie multiproblematiche, dalla caduta e mancanza di modelli validi personali e sociali, anzi dall’affermarsi nella nostra società fluida, senza punti validi di riferimento e rassicurazioni, di gruppi criminali e di potere anche occulto che condizionano comunità intere, relazioni e vissuti esistenziali.
Ma Papa Francesco ci dice che non possiamo e non dobbiamo restare spettatori esortandoci a reagire, a non arrenderci, ad esserci, a dare il nostro contributo perchè “Dio continua a cercare alleati, continua a cercare uomini e donne capaci di credere, capaci di fare memoria, di sentirsi parte del Suo popolo per cooperare con la creatività dello Spirito. Dio continua a percorrere i nostri quartieri, le nostre strade”.